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L’architetto italiano 2013: un'intervista ai Piuarch

Dal 26.02.2014 al 26.03.2014

Incontriamo i soci dello studio milanese all’indomani della premiazione al MAXXI di Roma ‘Architetto Italiano dell’anno’ che il Consiglio Nazionale degli Architetti ha istituito in occasione dei 90 anni della sua fondazione

Lo studio milanese Piùarch nasce nel 1996 dalla scommessa fatta tra i 4 soci Francesco Fresa, Germán Fuenmayor, Gino Garbellini e Monica Tricario coltivata all’interno dello studio Gregotti International negli anni del suo massimo fulgore.  Incontriamo 3 di loro (assente giustificato Gino Garbellini) all’indomani della consegna, al MAXXI di Roma, del Premio’ Architetto Italiano dell’anno 2013’ che il Consiglio Nazionale degli Architetti ha istituito in occasione dei 90 anni della sua fondazione.
Lo studio Piuarch si trova all’interno di una corte di laboratori in zona Brera, cui si accede da un edificio del primo ‘900 di via Palermo.
Iniziamo la nostra chiacchierata  partendo proprio dalle ragioni di attribuzione del premio da parte della giuria: “ la struttura collettiva dello studio è alla base di una grande capacità di dialogare con realtà diverse per cultura, aspettative, risorse economiche e tecniche.” 

È interessante che il premio a l’architetto italiano, esordisce German Fuenmayor, sia conferito ad un collettivo e non a un singolo. In effetti siamo un insieme di identità diverse,  sia per formazione che provenienza, con in comune però il fare architettura. Aspetto che è centrale del nostro lavoro sin da quando eravamo in quattro e ora siamo un gruppo molto numeroso.

Formazioni diverse: German Fuenmayor viene dal Venezuela dove si laurea in architettura, si specializza negli Stati Uniti e approda poi in Italia. Francesco Fresa studia a Roma e a Berlino; Monica Tricario si è formata al Politecnico di Milano, unica milanese del gruppo, e Gino Garbellini, valtellinese, è invece ingegnere.

Ci siamo conosciuti lavorando tutti nello studio Gregotti a cavallo tra ‘88 e ‘96, gli anni di sua massima espansione, continua Monica Tricario, in quel momento era forse il più importante studio in Italia. Abbiamo svolto progetti di grande interesse e imparato a lavorare insieme. Essendo tutti entrati subito dopo esserci laureati, dunque pronti ad essere ‘gregottati’ scherza Francesco Fresa, citando sottilmente Manfredo Tafuri, si è trattata di una bella esperienza di gavetta durata otto anni. La dimensione di gruppo, il modo di lavorare tanto e insieme, in grande coesione –si passavano interi fine settimana e notti sempre assieme- era, pur avendo Gregotti questa aura di intellettuale isolato, il suo modo di fare bottega, come gli piaceva definirla, una officina di oltre 70 persone.
Gino, Monica e German hanno lavorato sugli esecutivi di Bicocca, subito dopo il concorso, ma anche per il centro culturale di Belem. Francesco sulle commesse Tedesche, essendo arrivato da Berlino, giusto dopo la caduta del muro, dove si facevano un gran numero di Concorsi. Dunque facendo già molta esperienza all’estero.

Dell’esperienza di studio Gregotti, prosegue Francesco Fresa, abbiamo cercato di evitare il personalismo, che era forte al punto da incidere significativamente su tutti i progetti. Ad una identità fortemente teorica infatti corrispondeva paradossalmente una pratica piuttosto rigida.
Un altro tema per noi molto importante imparato in studio Gregotti è quello del contesto, afferma German Fuenmayor, anche se poi, pur essendo teorizzato un aspetto centrale, il linguaggio dell’architettura finiva per essere lo stesso a Berlino, Brescia o a Belem. Una grande capacità di lettura del tessuto urbano con una caduta libera del linguaggio, che ha finito per essere molto individuale e per questo autonomo.

Il vostro linguaggio è invece molto attento alle diverse situazioni. Vi si leggono matrici identitarie astratte, che spesso si ripetono, ma in generale in ogni intervento emerge l’attenzione alle diverse situazioni in cui vi trovate a operare

Noi ci guardiamo attorno ponendo molta attenzione al contesto urbano, prosegue German, ma anche culturale, artistico. Tutto ciò alimenta il nostro processo progettuale. Non si parte mai da un a priori, o da soluzioni da adottare, ma dalle osservazioni che si trovano lungo il percorso.

“ la struttura collettiva dello studio è alla base di una grande capacità di dialogare con realtà diverse per cultura, aspettative, risorse economiche e tecniche”, citando la giuria del Premio assegnatovi dal CNA. Dicevate della struttura collettiva dello studio Gregotti, smussandone però i personalismi. Come si traduce nel vostro lavoro?

I progetti sono sempre condivisi, prosegue, non c’è mai una figura che si impone, ci confrontiamo tra noi e a più riprese e con i nostri collaboratori, e il nostro modo di continuare a cortocircuitare tra noi è la principale differenza con quel periodo di lavoro.
Che diventa anche capacità di dialogo con la committenza, aggiunge Francesco Fresa, che significa flessibilità, anche nei confronti delle richieste che cambiano nel tempo.
Alcuni committenti chiedono un coinvolgimento e una presenza molto forte, ed essendo in quattro soci è possibile corrisponderlo. Forse anche un po’ per questo motivo abbiamo un certo tipo di committenza: la moda.

Il vostro lavoro però non si confonde con lo stile per molti versi decorativo dei vostri committenti.

Per quanto riguarda il lungo rapporto con Dolce&Gabbana, il nostro procedere essenziale, rispetto al loro stile barocco, visti assieme si valorizzano a vicenda, afferma Monica Tricario. Parlare di contesto significa parlare di vincoli e quindi di stimoli. Lo stesso vale per l’identità di un marchio: è un vincolo ma anche uno stimolo. La moda di Dolce&Gabbana è per certi versi ridondante, i nostri edifici semplici e minimal, o meglio essenziali: si sottolineano reciprocamente, sostenendosi a vicenda. Dunque, ancora una volta un atteggiamento contestuale.

Ritornando agli inizi, ci riprende Francesco Fresa, abbiamo cominciato a fare piccoli progetti fuori orario dello studio Gregotti. Ad un certo punto si è posta l’opportunità di lavorare per la Falk, per dei piccoli interventi a Sesto San Giovanni. Fu così che si decise di fare il salto senza rete, uscendo da studio Gregotti senza supporti o lobbismi. Lavoravamo per Falk e Sondel, e piano piano partendo dalla sistemazione di qualche ufficio, è imploso il lavoro per loro. Spesso eravamo noi a fare proposte, come avvenne per alcune centrali di cogenerazione. Facemmo 4 o 5 progetti di impatto ambientale, siamo stati tra i primi a proporre interventi di rivestimento e mitigazione dell’impatto per le grandi centrali - poi sono venuti De Lucchi, Boeri, 4 Associati. Essendo iniziative proposte da noi nei confronti del cliente erano operazioni a sbalzo.
Poi, con la dismissione delle acciaierie, nel ‘97, si aprì il grande tema del recupero delle aree dismesse di Sesto, gli altiforni di Unione e Concordia, per oltre un milione di mq. Allora il Sindaco era Penati, ed era in discussione il nuovo Piano steso dallo studio Gregotti.
Una ipotesi di recupero delle aree da noi proposta venne adottata dal Comune di Sesto, che divenne matrice per i successivi progetti dei vari Tange, Botta, Piano, oltre che per le diverse proprietà che si sono in seguito avvicendate.

Di tutto quel lavoro, dopo che Falk anche grazie al nostro progetto di riqualificazione cedette le aree, ci rimase solo il progetto per delle case popolari sviluppato per il Comune, parte di un progetto di recupero urbano più ampio, di cui le cooperative stravolsero l’impianto originale, dice German Fuenmayor.
Quella fu la prima lezione, afferma Francesco Fresa: cosa significa lavorare con il pubblico. Riuscire a realizzare questo progetto, a basso costo ma per noi ad alto valore estetico, fu una lotta contro tutti.
Ai funzionari appariva prioritario il problema della manutenzione, di fronte ad un edificio con rivestimenti in legno e l’intonaco bianco. Non parevano finiture consone ad un intervento di edilizia popolare. Furono realizzate grazie ad un finanziamento Regionale che non poteva sforare nei tempi e nei costi. Ma anche il Comune sollevò commenti ed emendamenti, sia da parte della maggioranza che dell’opposizione: pareva che lo stile non fosse sufficientemente operaio, avrebbero voluto mattoni a vista e tetto a falda. Oppure sembravano case non adatte a Sesto ma più adatte alla Costa Azzurra.
L’appalto fu vinto da una impresa che faceva ponti e strade.
Questa la realtà dei lavori pubblici: tutti contro. La qualità è una forma di male. Un progetto, compresa la DL, portato fino in fondo, senza significative varianti. Questo perché il progetto era inattaccabile, avevamo disegnato tutto. In 18 mesi circa 4.000 mq realizzati per un costo di circa 2 milioni di Euro.

Nel 2000 vincemmo un concorso a Bagnoli, mai realizzato, per la riqualificazione degli spazi pubblici di un rione in cui era stato realizzata l’aula bunker sotterranea per i processi di mafia. Un rione incastrato tra ferrovia e acciaieria. Un lavoro di sistemazione dello spazio pubblico con funzioni di servizio.
Lezione numero due, afferma di nuovo Francesco Fresa: un progetto fatto e finito, cui accompagnammo anche il progetto economico di finanziamento attraverso la comunità europea: venne acquisito e messo nel cassetto. Nessun esito.

Intanto iniziavamo proprio allora a essere lo studio locale di David Chipperfield per i negozi di Dolce&Gabbana, conosciuto grazie a comuni conoscenze interne al suo studio. Sin dall’inizio non pareva particolarmente interessato al lavoro, interviene German Fuenmayor, per cui noi dopo aver iniziato a fare per lui pratiche amministrative, via via abbiamo preso piede con il committente, attraverso la nostra presenza ed efficienza.
Poco dopo, arriva il Concorso Ansaldo. E con esso la lezione numero tre, dice Francesco Fresa. E alla terza, come per i bambini, o la capisci o è meglio lasciar perdere.
Il bando di Concorso Ansaldo richiedeva un curriculum pesante, per cui ci apparve naturale rivolgerci allo studio Chipperfield, essendo in quel momento in relazione professionale con lui. Costituimmo un’ATI.
Ci abbiamo lavorato assieme sia a Milano che a Londra. Noi lo abbiamo presentato alla giuria, lui non venne.
Ma appena vinto è venuto a Milano per la premiazione, e, ricordandosi di essere una Archistar, appena prima della conferenza stampa, pose le sue condizioni: il progetto è mio, se volete al conferimento vado solo io, e l’ATI si cancella. L’Amministrazione, nella figura dell’Assessore Maurizio Lupi e della dottoressa Alessandra Mottola Molfino, allora direttore centrale della Cultura e Musei, dello Sport e Tempo Libero del Comune di Milano, al posto che difenderci ci tenne ai margini, promettendo di farci diventare solo in seguito architetti locali di riferimento: incarico che invece venne dato ad altri e riguardo cui anche l’Ordine non ci seppe aiutare a tutelare i nostri interessi … e fece pure una conferenza di presentazione del progetto senza neppure invitarci.
Sulle riviste si scatenò come una damnatio memoriae, aggiunge Francesco Fresa, da allora apparve solo lui come autore del progetto. L’unica a citarci fu Abitare e l’allora direttore Italo Lupi.
Fu così che facemmo nostra la terza lezione finale: abbiamo capito di chi non bisogna fidarsi e chi non vogliamo essere. Non vogliamo essere archistar, non ci fidiamo delle archistar, non vogliamo avere rapporti con la politica, con i salotti, le lobby e le organizzazioni, e le riviste.

Nel frattempo Dolce&Gabbana ci propose di diventare unici loro interlocutori. Inizialmente rifiutammo, non volendo tradire i patti con Chipperfield. Ma successivamente a questi fatti naturalmente le cose cambiarono.
La fortuna è stata che Dolce &Gabbana sia cresciuta tantissimo in poco tempo. Ampliandosi si è dovuta dotare di numerosi showroom, fabbriche eccetera, e noi li abbiamo accompagnati fino ad ora, senza che il lavoro dell’ufficio tecnico interno prendesse il sopravento. Per le Boutique, racconta Monica Tricario, oggi sono loro che a manuale sviluppano il lavoro riproducendo i nostri schemi, ma per le eccezioni, sia commerciali che logistiche, siamo chiamati direttamente. Ma i primi 4 o 5 anni eravamo noi a sviluppare tutto, a viaggiare e sviluppare progetti.

Un rapporto esemplare, dice Francesco Fresa, loro avevano bisogno di persone efficienti, concrete, ben gestite e coordinate, capaci di tempi rapidi e con un buon approccio architettonico per dare casa a questo sviluppo straordinario. Ne è nato un buon rapporto professionale.
Pur essendo una committenza forte, che ci ha garantito lavoro negli anni, parallelamente abbiamo sempre cercato di mantenere viva l’attività attraverso concorsi e diversi altri progetti, sia per non essere monopolizzati che per mantenere una nostra autonomia intellettuale.
Per questo dal 2000 abbiamo fatto tanti concorsi internazionali, inizialmente solo aperti, non volendo avere più altre interlocuzioni o appoggi esterni, come da  lezione acquisita. Grazie anche al lavoro con Dolce&Gabbana siamo stati tra i primi ad entrare nel mercato russo e orientale. Lavorando con Dolce&Gabbana era inevitabile lavorare in quella realtà. Il progetto delle Quattro Corti di San Pietroburgo è esito di un concorso a 4, così come è stato un concorso quello vinto con Hines per Garibaldi Repubblica a Milano, invitati con 4 o 5 gruppi, Cerri, Citterio…

È difficile parlare di un aspetto contestuale riguardo questo progetto milanese. Un progetto con un grado di astrazione estremo, una forma diciamo organica, ma di fatto obbligata dal planivolumentrico di Cesar Pelli.

Oggetto del concorso era costruire due torri, dice German Fuenmayor, anche piuttosto alte. La prima cosa che abbiamo considerato, trovandoci a cavallo tra il sistema Pelli, con i suoi grattacieli, e il quartiere piuttosto omogeneo esistente accanto, è stato prima di tutto contenerne l’altezza.

Un corpo di fabbrica che però così diventa di profondità notevole, anche se si tratta di uffici

Per questo, dice Monica Tricario, abbiamo aperto dei buchi per illuminare l’interno. Pur apparendo unitario, si tratta di due corpi di fabbrica, e anche i due fronti sono molto diversi tra loro.
Cesar Pelli prevedeva una volumetria scalettata, racconta Francesco Fresa mostrando il modello di studio, composta da 2 torri di 8 e 6 piani. Le indicazioni del bando si limitavano a costringere il sedime dei nuovi edifici sull’impronta data dal masterplan e a richiedere due edifici separati, con un portico che proseguisse quello in vetro della piazza.  
Noi abbiamo unito visivamente i due corpi, mantenendo le altezze del passaggio tra i due, e mantenendo l’altezza degli edifici attigui esistenti. Una vetrata continua con lamelle verticali brise soleil a passo fitto, un metro, che dissimula il podio verso l’esistente.
Ci sembra un buon esempio di come partecipare ad un concorso: facendo il contrario di quanto richiesto ma stando dentro le regole. Eravamo sicuri di perdere, e abbiamo vinto. Un edificio di fatto alieno rispetto alla piazza, più vicino alla città, di cui riprende l’altezza, anche se poi col tessuto esistente c’entra poco. Per questo abbiamo fatto riferimento ad edifici milanesi forse più astratti, penso a Terragni per la Triennale (casa sul lago per un artista, V Triennale, 1933, ndr) e il suo contesto culturale, più che agli edifici esistenti.

Voi neutralizzate il prospetto con fitti montanti e vetro…

Essendo il fronte verso sud, e non volendo che sembrasse un retro ma nemmeno che fosse un affaccio, essendo gli edifici esistenti molto vicini, abbiamo disegnato una facciata neutra in cui i montanti fungono come detto da brise soleil.

L’intervento disegnato da Cesar Pelli di contestuale non ha nulla, senza entrare nel merito dell’architettura. Mi chiedo come mai vi abbiano invitato, se conoscevano il vostro lavoro contestuale in questa occasione poteva valer poco. Una committenza che non scegli e che ti pone di fronte a un programma o a richieste non sempre condivisibili

La committenza è un vincolo come gli altri, fa parte del contesto, è un contesto, dice Monica Tricario. Nel nostro caso era riuscire a dire: o ci siamo o non ci siamo. Rimaniamo nelle regole ma proponiamo qualcosa di molto diverso. La nostra presentazione al concorso infatti partiva proprio dal punto interrogativo: è proprio questo lo sviluppo giusto della città? La risposta che abbiamo dato non è stata né una mediazione né un contrasto, nulla di contrapposto al programma, ma qualcosa che aggiunge sicuramente valori di contesto, senza essere per questo troppo contestualizzato, ovvero non stridente con quanto lo circonda.

Guardando al futuro, ho visto entrando il modello dell’altro concorso Hines dello scorso anno, dedicato all’area verso il parco.
Un progetto che appare poco piuarch,  fondato su una geometria circolare e per questo forse mi appare distante da quanto fino ad ora da voi realizzato.

Perché poco contestualizzato? Non c’è un riferimento geometrico con l’impianto edilizio, ma perché in realtà è fondato sulla relazione con il parco, un area sterminata, che trova le sue matrici nel disegno dello studio Land, che disegna attraverso dei cerchi di alberi i diversi capitoli della ‘biblioteca degli alberi’ del parco. Un edificio che si confronta con l’elemento organico e non con il tessuto della città, riprendendo dunque il disegno circolare per la struttura e l’involucro.

Futuro?

In via Mecenate, un vecchio progetto, che è ripartito con una funzione diversa.

Trovo la sequenza dei vostri diversi interventi per Dolce& Gabbana un buon modo per esemplificare quanto da voi raccontato riguardo il  rapporto con il contesto, in relazione con la nostra città.
Il primo intervento di via Goldoni, del 2000, è il recupero di un edificio degli anni ’60 di struttura in c.a. apparentemente prefabbricata, caratterizzato da una facciata International style su cui avete ‘semplicemente’ applicato una diversa partizione della griglia attraverso inserti in legno, attualizzandone immediatamente il disegno. Inoltre l’utilizzo di altri materiali preziosi –oltre il legno di teak il marmo nero dell’ingresso, per esempio, accompagna ‘semplici’ gesti di volume, come l’arretramento e innalzamento dal piano strada di tutto lo zoccolo di facciata, caratterizzato da grandi vetrate senza telaio, il verde filo strada, in profondità intravedendo il disegno della corte interna.
Questo schema si  stempera con il volume ‘neutro’ costruito in via Broggi, a completamento di un edificio ‘vera milano’ cui si accosta,  ridefinendo in pianta così come in alzato il tessuto urbano Berutiano.
Fino al nuovo, ultimo edificio di fianco all’ex cinema Metropol –il quale ancora gioca con le lame ma ritorte che fanno il disegno della facciata- che appare ancora più astratto,  dove il fronte urbano dite essere per voi quello della corte interna, tradizione milanese per eccellenza, in cui tuttavia il fronte su viale Piave, il cui impaginato è ottenuto attraverso grandi telai in acciaio sfalsati tra loro, appare sempre più astratto e sofisticato nel disegnare un prospetto urbano ‘tradizionale’.  

Anche il progetto di concorso dell’Hotel Duca d’Aosta parte dalla griglia neutra, ma si costruisce poi una identità molto più forte degli ammiccamenti alla seijma o Moneo che si vedono sulle riviste.

Già, un altro concorso perso, dice German Fuenmayor, cui tenevamo molto.
Abbiamo però appena vinto un concorso in Francia, dopo aver cercato di partecipare a tantissimi a curriculum, che lavora sullo stesso principio. Speriamo sia la volta buona di vederlo costruito.
 

Francesco de Agostini

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