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EXPO Siviglia 1992. Alla conquista del west

Dal 28.03.2009 al 28.03.2010

Terza puntata delle serate dedicate all’analisi di Expo passate per immaginare il futuro, dedicata a ‘L’era delle scoperte’, nel cinquecentenario della scoperta dell’America.

Siamo giunti alla terza puntata delle serate dedicate all’analisi di Expo passate  promosse dal nostro Ordine, oggi dedicata a  ‘L’era delle scoperte’, ovvero ad Expo Siviglia ‘92 nel cinquecentenario della scoperta dell’America.
Il presidente, Daniela Volpi, introducendo la serata, ci ricorda che ad un anno esatto dalla festa di accoglimento della candidatura milanese all’Expo Internazionale del 2015, i cittadini attendono un programma di progetto che non sembra nei fatti ancora concretizzarsi.

Giangiacomo Schiavi, del Corriere della Sera, moderatore della serata, introduce il tema prendendo spunto da un'intervista a Renzo Piano fattagli proprio nei giorni dell’assegnazione della candidatura Expo 2015.
Sollecitato a collocarsi tra gli entusiasti o i pessimisti riguardo Expo Milano, la risposta è stata di scetticismo, nel timore che ancora una volta un'occasione di qualità –il riferimento è al concorso milanese dedicato all’area della Fiera- potesse veder essere offuscata dal colore dei soldi.
A distanza di un anno la rissa delle poltrone sembra prevalere sul progetto. Si parla di infrastrutture, che sono tutte per altro opere già programmate, ma non si dipana ancora un orizzonte chiaro a riguardo dell’Expo vera e propria.
Il suggerimento di Schiavi è di adottare il modello di condotta sul Victory dell’ammiraglio Nelson: esser sempre pronti, essere carichi di coraggio, di fortuna ma anche di paura sia per gli errori che si possono commettere che dei ricatti cui si può essere oggetto.
Ma pur armati di queste virtù, la regia rimane determinante per darsi le giuste coordinate.

Eric Soler, presidente Fidas, presenta l’Expo di Siviglia come una grande festa dell’Architettura e ne illustra i principali passaggi organizzativi.
Nel 1986 il Concorso Internazionale  vinto a pari merito da Emilio Ambasz, che propone l’acqua come elemento conduttore del progetto, e Antonio Fernandez Ordonez, concentrato invece sull’utilizzo successivo all’evento da parte della città storica.
Sottolinea il tema della flessibilità: “La logica e l’efficacia hanno il sopravvento sul disegno architettonico ed urbanistico”. Nei fatti,  se all’inizio era prevista la partecipazione di 60 paesi, su un area di circa 30 ettari, si è finiti con la partecipazione di 111 paesi più 46 istituzioni, per complessivi 65 ettari di sviluppo, pari a metà della superficie della città storica!
Così come ad una previsione di 18 milioni di visitatori, si arrivò a 36 milioni di presenze.

Naturalmente le infrastrutture furono tante e sostanziali:
- rete viaria di collegamento, oltre 50 km tra circonvallazione e ripristini
- bonifica e riqualificazione dell’ex area ferroviaria oggi  nuova Avenida Tornea, lungo il margine urbano del fiume su cui affaccia sul lato opposto l’area Expo
- i collegamenti all’area attraverso ben 6 nuovi ponti
- il nuovo terminal aeroportuale (di Moneo)
- la nuova stazione ferroviaria (di Cruz e Ortiz)
- il nuovo teatro dell’Opera (De Martin e Pozo)
- ma soprattutto l’infrastrutturazione dell’area Expo, costruita interamente su suolo pubblico ad uso agricolo in cui vi era, assurto a simbolo dell’area, solo il convento S.Maria de las  Cuevas, poi fabbrica di ceramica, dismessa e quindi per l’occasione restaurato.

A tale azione si affiancò la costruzione di importanti edifici di qualità, alcuni di essi progettati per essere riutilizzati, sottoforma di padiglioni tematici o nazionali.
Destinazione  successiva alla grande esposizione, un Parco Tecnologico dedicato l’intera area Andalusa.
Invece per le parti demolite si prevedeva una integrazione  alla città storica mediante lo sviluppo di servizi culturali e sportivi.
Soler sottolinea le  difficoltà  manifestate nel coniugare i diversi interessi rappresentati dai 3 livelli amministrativi coivolti: statale, regionale e comunale.
La crisi economica del 93/95 fermò ogni iniziativa. In tale frangente vi fu il coraggio di alcune amministrazioni a trasferirsi nelle strutture permanenti, stimolando così anche istituzioni private, e nel 97/98 inizia a popolarsi seriamente.
Gli ultimi 10 anni di boom economico hanno confermato la trasformazione dell’isola in grande Parco Tecnologico, cui si sono affiancati nel tempo anche centri di ricerca e Università, che ad oggi significano 341 imprese e istituzioni per circa 15.000 presenze.

Claudio Sabatino ha poi presentato il servizio fotografico compiuto sull’area. Ancora una volta l’efficacia delle immagini è illuminante. Se la domenica appare città inanimata, il lunedì cambia tutto. Sottolinea come l’area sia interamente recintata e regolata da chiusura oraria.
Dalle immagini prevale la dimensione, l’incoerenza di oggetti che non dialogano tra loro, accompagnati però da percorsi apparentemente gradevoli e ricchi di verde.

Gae Aulenti, autrice del padiglione italiano, interviene sottolineando come le devianze alle prescrizioni di griglia che il piano imponeva abbia costituito il limite dell’operazione. L’errore, e le immagini lo rendono eloquente, è proprio aver costruito immaginando una fiera, fatta di padiglioni autonomi concepiti per stupire, mentre lo sguardo al futuro avrebbe dovuto imporre una logica legata a principi di espansione urbana. In questo senso a suo avviso la proposta Battisti/Nicolin/Deganello di un Esposizione minimalista è di sicuro interesse.

Cagnardi, con alle spalle l’esperienza di 4 Expo, sottolinea con forza la elasticità del programma, di conseguenza la flessibilità del progetto,  poiché le condizioni di impianto cambiano repentinamente in funzione delle adesioni delle nazioni partecipanti, spesso all’ultima ora.
Ci mostra il suo progetto per il concorso di Siviglia del ‘86, da cui trae i temi allora emergenti, a confronto con quelli odierni: sostanziale tema del concorso era la reversibilità dei padiglioni per riportare il suolo post Expo ad uso agricolo.
Ma a Milano l’area è privata, quindi non potremo riutilizzarla, e i servizi di riqualificazione non saranno a vantaggio della comunità. Siviglia insegna invece che il suolo pubblico è una risorsa soprattutto per quanto può accadere dopo l’Expo.
Considerare l’infrastrutturazione come concreta iniziativa è da parte dell’amministrazione estremamente cinico, se non vi è un disegno cui farla corrispondere. Bisogna muoversi e ragionare su un disegno complessivo. I numeri di un Expo sono straordinari, l’affluenza senza un piano del traffico sarà traumatico, sia a scala urbana che nazionale.

A questo punto Gae Aulenti invita il prof. Battisti a parlare della sua proposta. L’immagine richiamata da Nicolin del Fuori Salone di Milano, in occasione della serata dedicata a Expo Hannover può essere una buona suggestione di partenza. Le risorse in tempo di crisi vanno dedicate ad una armatura territoriale ecosostenibile, ad adeguamenti e infrastrutture affinché ciò che rimarrà successivamente siano edifici adeguati e sostenibili utili alla città.
Cita a titolo di esempio alcuni dei possibili contenitori su cui lavorare: Hangar Bicocca, il nuovo Vigorelli, la Fiera city, i Padiglioni dell’Ansaldo, la Triennale, la Fondazione Pomodoro.

Nicolin invita a porre l’attenzione sulla ripartizione dei finanziamenti tra infrastrutture e area expo. Propone di guardare alla unica esperienza italiana dell’ E42, unica new town  in italia oggi funzionante.
Conclude affermando che forse la soluzione è tornare alla prima esposizione di Paxton, ovvero mettere i padiglioni dentro un grande contenitore.

Deganello insiste: bisogna cancellare i padiglioni, sorta di baraccopoli dello spettacolo, a favore di un idea di città.

Infine Cagnardi allerta: non si tratta di dire si o no ai padiglioni, ma avere un approccio sistematico al problema, un programma corrispondente a degli obiettivi, che haimè non si vedono ancora.


Prossimo appuntamento il 5 maggio con Expo Suisse.


Francesco de Agostini


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