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In ricordo di Vittorio Gregotti

Dal 20.03.2020 al 20.04.2020

È scomparso domenica 15 marzo a Milano l'architetto Vittorio Gregotti, una delle voci più influenti dell’architettura italiana degli ultimi decenni. Pubblichiamo una breve biografia e una raccolta di contributi

Si è spento domenica 15 marzo 2020 a Milano l'architetto Vittorio Gregotti, una delle voci più influenti dell’architettura italiana degli ultimi decenni.
Oltre a pubblicare una breve biografia stesa dell'architetto Marco Voltini, riportiamo inoltre i numerosi contributi di colleghi e amici di Vittorio Gregotti che hanno accolto l'invito dell'Ordine a lasciare una testimonianza.  
Invitiamo inoltre coloro che desiderano inviare un contributo scritto a mandarlo a questo indirizzo mail; verrà di seguito pubblicato in calce a questa pagina


Per una progettazione totale
Classe 1927, Gregotti è nato a Novara. Allievo di Rogers, ha fondato nel 1953 con Ludovico Meneghetti e Giotto Stoppino lo studio Architetti Associati con sede prima a Novara e dal 1963 al 1968 a Milano. Tra le opere di questo periodo si ricordano: le residenze per i dipendenti dell'Industria Tessile Bossi a Cameri, Novara (1954-61); il Piano Regolatore Generale di Novara; gli edifici per abitazione in cooperativa a Milano in via Palmanova, in via Desiderio da Settignano e in via Cassoni;la sezione introduttiva alla XIII Triennale di Milano (1964).

Del 1969 è la vittoria al concorso per il progetto del quartiere ZEN di Palermo, mentre dal 1969 al 1972 segue il progetto per i dipartimenti di Scienze a Palermo.

Nel 1974 fonda lo studio Gregotti Associati insieme a Pierluigi Cerri, Pierluigi Nicolin, Hiromichi Matsui e Bruno Viganò, a cui subentreranno nel corso degli anni Augusto Cagnardi e Michele Reginaldi. L’attività dello studio si contraddistingue fin da subito per progetti di alto profilo internazionale. Tra gli anni ’70 e ’80 vanno ricordati i progetti per l’Università della Calabria a Rende, la Fondazione Feltrinelli a Milano, il Piano di edilizia economica e popolare a Cefalù, il quartiere per abitazioni a Cannaregio, le residenza in Lützowstraße a Berlino, il centro ricerche ENEA alla Casaccia. Nel 1985 lo studio vince il concorso per il quartiere Bicocca a Milano, la cui realizzazione durerà vent’anni. Gli altri progetti notevoli di questo periodo sono il centro culturale a Bélem a Lisbona; la ristrutturazione del Corriere della Sera; lo stadio Luigi Ferraris a Genova; il piano regolatore di Torino; la risistemazione dell’area dell’ex zuccherificio di Cesena; gli stadi per Marrakech e Agadir; il progetto per una nuova città in Ucraina. A partire dagli anni 2000, a progetti europei come il Grand théâthre de Provence ad Aix-en-Provence o la chiesa di S. Massimiliano Kolbe a Bergamo, si affiancano le esperienze cinesi: la nuova città di Pujiang e il quartiere di Pudong entrambi a Shanghai.

Gregotti ha saputo costruire un percorso intellettuale di alto profilo: Accademico di San Luca (dal 1976) e di Brera (dal 1995), ha diretto Edilizia Moderna dal 1963 al 1965, Rassegna dal 1979 al 1998, Casabella dal 1982 al 1996. È stato professore di Composizione architettonica alla facoltà di Architettura dell'Istituto universitario di Architettura di Venezia, docente alle facoltà di Architettura di Milano e Palermo e visiting professor alle università di Tokyo, Buenos Aires, San Paolo, Berkeley, Losanna e a Harvard.

Autore prolifico. Tra i testi più importanti vanno ricordati il Territorio dell'architettura (1966) – probabilmente il suo testo più importante –, Il disegno del prodotto industriale (1982), La città visibile (1993), Le scarpe di Van Gogh. Modificazioni dell'architettura (1994), Racconti di architettura (1998), Identità e crisi dell'architettura europea (1999), Frammenti di costruzione (2000), Sulle orme di Palladio (2000), Diciassette lettere sull'architettura (2000), Contro la fine dell'architettura (2008), Architettura e postmetropoli (2011), L'architettura di Cézanne (2012), Incertezze e simulazioni (2012), Il possibile necessario (2014) e Quando il moderno non era uno stile (2018).

Marco Voltini

Pubblichiamo i ricordi di alcuni colleghi e amici che hanno accolto l'invito dell'Ordine a lasciare una testimonianza:
Emilio Battisti / Ginette Caron / Pierre-Alain CrosetPierluigi Nicolin / Bruno PedrettiVittorio Pizzigoni / Franco Raggi / Pier Paolo Tamburelli / Monica Tricario / Daniela Volpi

                                                                                             EMILIO BATTISTI
                                                                                                         architetto

Amiche e amici carissimi,

sembra che il coronavirus si sia portato via anche Vittorio Gregotti nei cui confronti ho un grande debito di riconoscenza perchè quando, nel 1958, decisi di iscrivermi alla Facoltà di Architettura fu proprio lui, che all'epoca aveva lo studio a Novara insieme a Lodovico Meneghetti e Giotto Stoppino, ad accogliermi per fare la mia prima sperienza di training. Ricordo ancora che per mettermi alla prova, prima di darmi qualcosa da fare, mi chiese di studiare un bel numero di disegni esecutivi del progetto della villa di Stradella, che era da poco stata ultimata e erano in attesa di essere archiviati. In aggiunta mi consegnò un manuale di Storia dell'architettura da leggere. Quando dopo una settimana gli dissi che evevo studiato i disegni mi fece un rapido esame per verificare se avevo capito in che rapporto ciascuno stava con gli altri e mi affidò all'unico geometra delle studio dicendomi che dovevo aiutarlo a eseguire i disegni del concorso per il nuovo teatro di Alessandria che doveva essere consegnato qualche giorno prima di Natale. Come potete immaginare sono stato profondamente segnato da quella prima esperienza di concorso che mi costrinse per un paio di mesi a lavorare molto intensamente di giorno e di notte. Come compenso ricevetti il bel libro di Philip Johnson, Mies Van Der Rohe pubblcato dal MOMA accompagnato dagli auguri eseguiti con colorati pennarelli da Meneghetti. Dopo quella prima esperieza rimasi in contatto quasi permanente con Vittorio avendo la possibilità di fare importanti esperienze di progettazione come i concorsi delle università di Firenze e della Calabria e di collaborare ai numeri monografici di Edlizia Moderna.
Lo scorso anno in occasione del ciclo di incontri che ho organizzato per discutere delle nuove architetture di Milano, la maggior parte dei colleghi, nel presentare le loro opere, hanno citato la propria esperienza nello studio di Vittorio come grandemente formativa. Per informarlo di questa plurima importante testimonianza gli ho scritto la lettera allegata che gli ha fatto molto piacere. Il ritratto in alto l'ho fatto dopo la sua ultima lezione e allo IUAV alla quale molti dei colleghi che avevano collaborato con lui nei decenni si presentarono a sua insaputa per fargli un omaggio che lo commosse molto.
In questa situazione non è neppure possibile andare di persona a esprimere pertecipazione ai famigliari ma chiunque desidera associarsi nelle condoglianze può rispondere a questa mail e sarà mia cura comunicare i nomi di tutti alla moglie Marina.

Emilio Battisti

[qui l'elenco dei nomi: Paolo Favole, Renato Mannheimer, Giovanna Calvenzi, Marco Bay, Gioacchino Garofoli, Laura Amplorella, Paolo Deganello, Eugenio Galli, Monica Boldrin, Maria Grazia Mazzocchi, Tania Zaneboni, Alessandro Balducci, Laura Censi, Isa Tutino, Franco Raggi, Giangi D’'Ardia, Amedeo Bellini, Fabrizio e Mariella Motterlini, Elvio Leonardi, Barbara Blasi, Anna Moretti, Grazia Varisco, Francesca Zajczyk, Carmen Andriani, Paolo Ventura, Mario Mocchi, Paola Valentini, Alberto Bianda, Paolo Biscottini, Daniela Bragazzi, Anna Finocchi, Maria Grazia Meriggi, Bianca Bottero,, Fayçal Zaouli, Giuliano Banfi, Guya Bertelli, Henrique Pessoa, Vincenzo Gaglio, Federico Mazza, Simonetta Venosta, Giuliana Zoppis, Cinzia Galimberti, Leonardo Cavalli, Ginette Caron, Cristina Pallini, Ugo Targetti, Maurice e Paola Kanah, Tito e Silvia Boeri, Enzo Porcu, Claudio Aldegheri, Giulio Crespi, Barbara Ballabio, Piergiovanni Ghidini, Laura Peretti, Danilo Pasquini, Ferruccio Capelli, Gianpaolo Corda, Salvatore Crapanzano, Paolo Hutter, Raffaella Fagetti, Luciano Pilotti, Anna Tuteur, Marta Espanet, Ruggero Lenci, Matteo De Ponti, Maria Lucia Caspani, Manlio Brusatin, Pierre Alain Croset, Renato Capozzi, Pippo Amato, Giorgio Goggi, Alvise Norfo, Umberto Zanetti, Paola Bonfante, Stefano Salvi, Bianca Beccalli, Francesca Cadeo, Alberto Martinelli, Lodovico Meneghetti, Patrizia Buzzi, Christopher e Maja Broadbent, Alberto Caruso, Giacomo De Amicis, Carlo Mantero, Maria Carla Baroni, Mario Botta, Silvestro Acampora, Giovanni Gramegna, Mario, Giorcelli, Ada Lucia De Cesaris, Giorgio Ferraresi, Gianni Contessi, Giuseppe Marinoni, Marco Zordan, Luisa Bocchietto, Annamaria Corbetta, Domenico Cavallo, Augusto Rossari,, Giovanna Giannattasio, Clare Littlewood, Luca Gianfreda] 

                                                                                                          ***
                                                                                             GINETTE CARON
                                                                                                 graphic designer

ricorda Vittorio Gregotti con un haiku

A giant tree fell
Echoes and re-echoes
In the mountains

Meisetsu                                                                                                                                                                                                                  

                                                                                                          ***
                                                                                     PIERRE-ALAIN CROSET
                                                                                                 architetto

Il tavolo di Vittorio

Molti, troppi ricordi sono tornati con la morte di Vittorio Gregotti. Da dove iniziare? Mi torna in mente lo studio di via Bandello e la posizione del tavolo di Vittorio, in mezzo ai collaboratori: un tavolo sempre ingombro di carte e documenti, sul quale quotidianamente lavorava, scriveva e disegnava. Questo tavolo non era situato nella posizione più bella dello studio, lungo le grandi arcate aperte sul giardino, bensì nella parte più buia e sacrificata dell’'ampio salone dell’'antico stabilimento di terre cotte Candiani, sotto il grande soppalco occupato da Pierluigi Cerri e dai suoi collaboratori del reparto Interni, Design e Grafica della Gregotti Associati. Non gli ho mai chiesto di spiegarmi le ragioni di questa scelta, perché probabilmente per tutti appariva evidente il legame con la sua idea di una grande “bottega”, associata ad una concezione dell’'architetto come intellettuale e come artigiano. In questa bottega Vittorio agiva da assoluto protagonista, che voleva conoscere e controllare tutto, e nello stesso tempo difendeva con generosità un’'ideale dell’'architettura come arte collettiva e come bene pubblico che dovrebbe portare alla rinuncia dell’'autorialità. 

Questo apparente paradosso potrebbe stimolare una prima riflessione critica sull’'eredità di Vittorio. Superato l'’immediato dolore provocato dalla perdita di un grande architetto che per molti di noi è stato una guida, un esempio e uno straordinario stimolo intellettuale, avremo bisogno di molto tempo per poter analizzare con serenità e lucidità l’'enorme quantità di documenti prodotti da Vittorio e dalla Gregotti Associati, donati al Comune di Milano nel 2013 e ora conservati nel Castello Sforzesco e gestiti dal CASVA (Centro di Alti Studi sulle Arti Visive). A me piacerebbe scoprire i documenti che ingombravano il tavolo di Vittorio, in particolare i suoi quaderni neri, in formato A4, che teneva sempre aperti e sui quali annotava pensieri e schizzi. Sono convinto che in essi potremmo ritrovare ciò che più mi impressionava ogni volta che incontravo Gregotti: la sua straordinaria intelligenza e la prodigiosa memoria, la vivacità e anche l’'impressionante velocità del suo pensiero, l'’immensa curiosità intellettuale, l'’acutezza e la lucidità delle sue critiche sulla condizione odierna delle città e dell’'architettura come disciplina. Alla fine di ogni incontro, privato o pubblico, ero sempre grato a Vittorio di sentirmi ricaricato e stimolato a continuare le comuni battaglie “contro la fine dell’'architettura”. 

Pierre-Alain Croset

 

                                                                                                           ***
                                                                                             PIERLUIGI NICOLIN
                                                                                           architetto, direttore di Lotus

Vittorio Gregotti, l’'ultimo architetto-intellettuale.
Intervista di Sergio Massirono a Pierluigi Nicolin, pubblicata su "L'Osservatore romano" il 16 marzo 2020.

In una domenica surreale, immobile e muta, Milano piange Vittorio Gregotti, uno dei padri dell’'architettura italiana. Vinto dal male che in questi giorni ha sconvolto la convivenza, svuotando le città e impedendo persino il congedo da chi a sopravvivere non ce la fa. Giorni difficili per dire addio a un uomo che allo studio e al rinnovamento della vita urbana ha dedicato il lavoro di una vita. Pierluigi Nicolin, socio fondatore della Gregotti Associati e direttore della rivista «Lotus International», è oggi una delle voci più autorevoli dell’'architettura italiana nel mondo. Colpito dalla notizia, volentieri si offre a una conversazione dal tono estremamente confidenziale.

«Pierluigi —suggeriamo per iniziare —dicci a ruota libera chi è stato per te Vittorio Gregotti».
«Prendendola un po’' da lontano, direi che Vittorio è stato il mio maestro di architettura. Su questo non c’'è dubbio. E in sintesi direi che lui è la penultima, o forse l’'ultima figura di architetto-intellettuale, che è una delle caratteristiche, se non delle specialità dell’'architettura italiana. L’'Italia ha prodotto delle figure come Gregotti, ma anche Aldo Rossi —di architetti pensanti, la qual cosa non è così diffusa nel mondo: sembra strano, ma è così. E quindi la sua figura, oltre che rappresentare il percorso di una persona intelligente — direi molto intelligente — è quella di uno che ha saputo praticare tutte le sfere di questa visione per cui gli architetti erano poi considerati delle persone importanti e interessanti. Tutto il contrario di adesso, dove gli architetti sono consultati in quanto show-business-man. Diciamo che questo tipo di architetto-intellettuale aveva la pretesa di dire delle cose: sull’'architettura, certo, ma più in generale sulla città, sul modo di vivere. Questa è stata la grandezza dell'’architettura italiana del Novecento».

La città è rimasta comunque per Gregotti «il luogo che offre le opportunità più ampie di lotta solidale ma insieme anche la solitudine più crudele». Quali sono i temi su cui vi siete subito ritrovati? Come è stato il vostro incontro?
Io ho avuto la fortuna di incontrarlo e di frequentarlo nel suo periodo che ritengo più brillante, più bello, più fertile: gli anni Sessanta e Settanta del Novecento. Lui era un architetto di Novara, veniva dal mondo quello del tessile; era già noto, perché tanto intelligente -— scriveva già negli anni Cinquanta per «Casabella», ad esempio —- —e il suo filone di allora era il neo-Liberty, cioè quel movimento un po’' regressivo, se vogliamo, ma di contestazione dell’'architettura moderna in quanto disumana, alienata... Insomma aveva approfondito una visione che penso di poter dire “"fenomenologica”" dell’'architettura, quella degli allievi di Enzo Paci e di Rogers. Così era il "Gregotti di Novara”"; io però lo incontrai a Milano e a Milano lui ruppe con quella esperienza e furono gli anni migliori, quelli in cui iniziammo a credere nel nuovo e ci sembrava di poter contribuire a cambiare il mondo, studiando e proponendo una nuova immagine di città e di convivenza, con progetti su grande scala che presupponevano una grande spinta ideale, utopica. Gregotti curò allora una delle più belle edizioni della Triennale, in cui osò mettere a tema il tempo libero, e a rispondere in quegli anni fu la città, o almeno una parte importante dei suoi intellettuali, basti pensare all’'amicizia e al coinvolgimento nella nostra ricerca di figure come Umberto Eco e molti altri.

Si respirava, però, negli interventi recenti di Gregotti, una sorta di malinconia, di rassegnazione. Per citarlo ancora, quasi a riascoltare un’'ultima volta la voce: «Si può dire che la costruzione dello spazio urbano, del suo tessuto, delle sue gerarchie e dei suoi monumenti, il suo disegno, cioè, nell'’antico doppio significato di progetto e di rappresentazione per mezzo delle forme, abbia perduto la sua capacità di mediazione nei confronti della società». Che cosa di quei decenni a un certo punto non ha funzionato? Si è discusso spesso dello Zen di Palermo, ad esempio. Che cosa vi è accaduto? Eravate degli idealisti, ci mettevate troppa astrattezza rispetto a una realtà che non sta mai tutta dentro le grandi visioni? Oppure c’'erano mancanze della politica, della società che non rendevano sufficiente il lavoro di voi architetti?
Un po'’ tutt’'e due. Anche il grande progetto dell’'università della Calabria aveva in sé questo contenuto utopico. Eppure devo dire che al di là dei problemi, di come è stata fatta e gestita, sono stato a vederla due o tre anni fa e rispetto al panorama italiano c’'è ancora da esserne orgogliosi, come dire? Per farla breve era davvero il periodo in cui si pensava di cambiare il mondo. Lo Zen, da questo punto di vista è un caso estremo, dove si voleva fare addirittura una cittadella, dare forma a un ideale e il fallimento è proprio quello classico delle utopie. Anche se, per intenderci, non parliamo di un progetto concepito da un gruppo utopistico scollegato dalla città, ma qualcosa di nato e poi consegnato alle istituzioni, con il comune di Palermo eccetera. Si tratta quindi di una vicenda molto complessa, per cui lo Zen è stato persino uno dei modelli studiati, per esempio Álvaro Siza per il quartiere Malagueira di Evora, che ha avuto tutta un’'altra fortuna. Insomma è controverso: non stiamo parlando delle vele di Napoli. Stiamo parlando di qualcosa di altrettanto tragico, per un verso, ma che per altro ha segnato una certa fase dell’'esperienza di Gregotti stesso. 

Insomma, anni di grandi sogni collettivi, di fiducia nel domani, di coraggio rivoluzionario.. E poi una doccia fredda di resistenze e di ordinarietà.
Lo Zen di Palermo venne realizzato, a seguito di un concorso, proprio nei primi mesi in cui Vittorio e io costituimmo la Gregotti Associati, che fu la prima società di progettazione in Italia: la certezza per me sono l’'inventività, la creatività, l'’immaginazione di quegli anni. E poi il mondo è cambiato e man mano anche la figura dell’'architetto è cambiata radicalmente. Io a un certo punto mi distaccai, come succede, ma la Gregotti Associati andò avanti con una miriade di progetti. Tantissime cose in giro per l’'Europa, di buona qualità, ma, diciamo, lì subentrò lo standard: è come se a un certo punto l’'architettura e la figura anche intellettuale di Gregotti fosse tutta volta a realizzare qualcosa, più che a pensare. È subentrata una ripetizione, con infinite variazioni, ma è diventata un po’' una “"maniera”", un modo di fare.

Venendo al presente, il passaggio di millennio ha segnato un cambiamento d’epoca, come lo chiama Papa Francesco. A caratterizzarlo mi pare sia una grande corsa degli architetti italiani verso la Cina. Anche Vittorio Gregotti, sin dalla fine degli anni Novanta ha iniziato a lavorare a grandi progetti entro scenari che nulla hanno a che fare con la misura dell’'Occidente. Che cosa ne pensi, tu che con la rivista «Lotus» hai uno sguardo continuamente aggiornato a livello planetario? C’'è un reale apprezzamento degli italiani nel mondo? O semplicemente è un nuovo mercato e ci si tuffa tutti nella possibilità di grandi affari?
Direi che ormai i cinesi hanno imparato l’'architettura occidentale meglio degli occidentali. Tuttavia, come dire? Il lavoro di Gregotti in Cina non è certo uno scempio, ma non è niente di così interessante, perché è uno di tanti progetti standard, abbastanza ben fatti, ma senza una carica propulsiva. Sta di fatto che i cinesi si sono rivelati nel corso del tempo - —anche perché molti hanno studiato all’'estero, soprattutto negli Stati Uniti— - più sensibili ai disastri che avevano procurato con la trasformazione massiccia e brutale del loro Paese negli ultimi decenni. Basta vedere le immagini delle loro grandi metropoli. Forse per questo hanno chiamato architetti da fuori. L’'architettura cinese, comunque, non ha ricevuto moltissimo dal contributo occidentale. Ha ottenuto più che altro qualche edificio spettacolare. Quindi direi che anche l’'architettura di Vittorio in Cina, legata soprattutto al lavoro del suo studio, non ha portato dei risultati così straordinariamente interessanti. Ha comunque un buono standard, ma senza più lo slancio iniziale.

Gregotti ha progettato anche due chiese parrocchiali: una a Seveso e una a Bergamo. Di per sé, quella che vi ha legati è una riflessione molto laica, che nasce in rapporto all’'urbanistica e ad altri temi sociali, ma poi è come se a un certo punto ogni architetto italiano si debba confrontare con la questione dello spazio sacro all’'interno della città. Che impressione hai delle chiese del tuo collega e amico?
Anche qui, come dire? Sì, lo standard è buono, ma si tratta di architetture che risentono della sua ultima fase, per cui mi sembrano chiese... “"alla maniera di Gregotti", riproposizioni cioè dei suoi moduli e del suo linguaggio formale, ma fatte quasi senza soffrire il tema. Trovo così anche il teatro degli Arcimboldi a Milano Bicocca, per esempio: opere che sembrano non fiorire, senza pathos, senza quel talento che vibrava nel Vittorio che ho conosciuto all’'apice della sua riflessione. Il suo forte è stato su un’'altra scala, quella di chi ha pensato il rapporto tra territorio e architettura, tra città e paesaggio. Una visione del collettivo, dell’'architettura come risposta a bisogni sociali diffusi, legati ai luoghi e alla loro storia. Per cui le sue chiese vanno bene, sì, ci mancherebbe: nel panorama italiano hanno la loro dignità. E, in fondo, per quel che ne capisco, il cristianesimo non è che chieda sempre dei monumenti: i gesti cristiani sono intrisi anche di una certa ordinarietà, ma è come se Vittorio non abbia saputo approfittarne per ridisegnare questo ordinario, per dargli cioè la necessaria impronta nuova. Sì, direi che l’architettura va sofferta: è geniale solo quando scaturisce da un travaglio umano e intellettuale. Se Gregotti è un grande lo è per ciò che l'’ha impegnato e coinvolto negli anni in cui forse abbiamo osato di più.

Pierluigi Nicolin

                                                                                                           ***
                                                                                        BRUNO PEDRETTI
                                                                                 storico dell'arte, saggista e scrittore

Il trattato rimpianto 

Se in epoca contemporanea l’architettura avesse preservato unito il suo patrimonio di pratica artistica, conoscenza tecnica e persino di sapere scientifico, il genere letterario chiamato a rappresentarla sarebbe rimasto il trattato, come nel Rinascimento e nell’Antichità, o in subordine il manuale operativo quale filiazione richiesta dai processi di specializzazione del lavoro e divisione sociale della conoscenza. Se così fosse avvenuto, gli architetti avrebbero sì continuato a disegnare in abbondanza, ma scritto ben poco e letto ancora meno (non si pubblicano cento trattati al mese, e inoltre un trattato non si legge: si consulta).

Ma così non è avvenuto, cosicché gli architetti hanno cominciato a scrivere e soprattutto a far scrivere su di sé, a leggere o a fingere di leggere testi (per fortuna molto illustrati) di altri architetti e dei tanti autori germinati dall’humus architettonico come genia vieppiù abbondante del racconto storico, dell’esegesi artistica, dell’agiografia professionale… Da un veloce sguardo a volo d’uccello, si direbbe che negli ultimi due secoli il declino patito dai pochi e irrinunciabili testi che un tempo erano gli orgogliosi trattati o a seguire le diverse forme dei compendi e dei manuali, abbia aperto un variegato profluvio letterario intorno all’architettura. Tanto che, come periodicamente anch’io sperimento, quando chiedo agli studenti che cosa si intenda per “letteratura architettonica”, i più pronti rispondono che con essa si intendono i libri di storia dell’architettura, i saggi di critica, le monografie sugli architetti, gli articoli nelle riviste di settore - tutti generi letterari accomunati, guarda caso, dal fatto che poco o nulla trattengono della normatività disciplinare degli antichi trattati o dell’autorità operativa dei successivi manuali. La risposta degli studenti è tanto sincera e giusta da dover far loro notare che questo profilo assunto dalla letteratura architettonica nella nostra epoca è un risultato storico, tutt’altro che una condizione naturale della cultura architettonica.

Ma perché il genere letterario del trattato si è di fatto estinto al pari di una specie inadatta all’evoluzione culturale e artistica, nonostante abbia segnato alcune delle più rigogliose epoche della storia disciplinare? Rimaniamo fiduciosi in attesa che una storiografia degna si applichi a raccontarci compiutamente la vicenda. Nell’attesa, possiamo tuttavia introdurre una riflessione che illustri il declino storico del trattato proprio a partire dal suo “rimpianto”.

L’esempio più significativo del nostro tempo da convocare al riguardo non può che essere quello dell’architetto e uomo di lettere Vittorio Gregotti. Lungo la sua carriera pluridecennale, Gregotti non ha infatti solo progettato e costruito, ma si è altrettanto cimentato in una produzione di scritture dove non mancano testi di storia (sull’espressionismo tedesco così come sulle “nuove direzioni dell’architettura italiana”), dove si impongono numerosi saggi critico-teorici (dal “classico” Territorio dell’architettura al più recente L’architettura nell’epoca dell’incessante) e dove abbondano gli scritti derivati dal suo impegno nel campo delle riviste, scritti in gran parte radunati poi in altri libri, per una produzione letteraria complessiva che veleggia abbondantemente oltre i 20 titoli! 

Scorrendo il curriculum di Gregotti ci si accorge di quanto l’impegno nelle riviste, in particolare, sia stato una costante e come soprattutto da qui sia germogliata la sua lunghissima primavera letteraria. Sembra che egli non abbia mai potuto concepire la pratica progettuale senza una parallela pratica di scrittura, quasi che una sorta di “intertestualità” lo abbia ossessionato sin da giovane (anche prima del Gruppo 63 di cui fece parte, unico architetto) con il fantasma di Victor Hugo, che negli anni ha continuato a svegliarlo prestissimo ogni mattina con domande sul destino del “libro di pietra” nell’epoca del “libro di carta”.

Dal 1953 al 1955 Vittorio Gregotti è stato redattore di “Casabella” e dal 1955 al 1963 caporedattore di “Casabella-Continuità” sotto la direzione di Ernesto N. Rogers; dal 1963 al 1965 direttore di “Edilizia Moderna”; poi, dopo una pausa in cui ha mosso i passi la sua prima stagione accademica, dal 1979 al 1998 direttore di “Rassegna” e, finalmente, dal 1982 all’inizio del 1996 direttore di “Casabella” - ruoli che non devono peraltro far dimenticare la sua “militanza” di opinionista su testate generaliste, da “Panorama” a “la Repubblica” e al “Corriere della Sera”.

La sua intensa attività pubblicistica non va però ascritta agli effetti inflazionistici portati dalla libera profusione dei molteplici generi che accompagna la “letteratura architettonica” contemporanea. Piuttosto, Vittorio Gregotti si rivela come forse il più pervicace archeologo dedito al recupero delle rovine del trattato che sia apparso sulla scena architettonica dai tempi del leggendario Le Corbusier. Ce lo dice la lettura della sua produzione letteraria, in particolar modo di quella affidata alle riviste, dove vediamo affiorare di continuo la volontà di riaccendere l’ambizione semantica dell’antico trattato, per quanto a partire dall’inevitabile elaborazione del suo lutto.

Nel frammento Fabbricare riviste (in Autobiografia del XX secolo, 2005), Gregotti ricorda che “in tutto il XX secolo si è pubblicato un gran numero di riviste di architettura”, ne tratteggia quindi la parabola che le ha viste passare dalle “riviste-manifesto” della avanguardie a formule più “stabili e istituzionali”, e infine lamenta il fatto che esse sono ormai dirette “solo da professionisti della comunicazione” che le hanno trasformate in vetrine di una “pubblicazione incessante” da cui sono scomparse la “selezione intenzionalizzata”, “le critiche strutturali”. La “critica strutturale” come modo di intendere la funzione delle riviste viene ribadita da Gregotti nel breve testo con cui apre il primo volume degli Indici 1982-1988 di “Casabella”, dove afferma che “il sistema di rimandi reciproci che costituisce la struttura di un indice è la prova se in una rivista le relazioni interne rivelino non solo una qualche logica nelle scelte ma anche un’interazione […] su cui parametrare gli avvenimenti dell’architettura di questi anni [così] da offrire alla prospettiva di una nuova modernità strumenti e metodi”.

Struttura, parametri, strumenti, metodi: tutti termini da “trattato” che cercano di arginare la “pubblicazione incessante”, cioè il profluvio narrativo e iconico dei molteplici generi della “letteratura architettonica” contemporanea. Certo, secondo Gregotti il compito della “critica strutturale” va perseguito pur nella consapevolezza - come leggiamo nell’editoriale con cui apre gli Indici 1-50 di “Rassegna” - che la rivista avanza “una ipotesi espressa con la prudenza che la sua provvisorietà (apparente) permette”. Tuttavia, in attesa che si costituisca “il carattere definitivo dello studio storico”, Gregotti sancisce che compito delle riviste sia quello di “chiudere, in prima approssimazione, numerose falle della ricerca storica stessa”.

Il compito delle riviste non consiste comunque solo nel “chiudere” le falle della conoscenza storica. In misura ancora maggiore esso mira anzi a “recintare” (come dichiarato sin dall’editoriale del primo numero di “Rassegna” del 1979 dedicato ai Recinti) la cultura disciplinare recuperando la facoltà di “scegliere e giudicare”. Come leggiamo in Sulle orme di Palladio (edito nel 2000 e sin dal titolo libro tra i più trattatistici di Gregotti, insieme a La città visibile del 1991), l’autore afferma infatti di considerare “lo scrivere libri o dirigere riviste una riflessione che va operata per dare fondamento al progetto”, momento in cui si misura la “possibilità di costruire e rispettare le regole nella realizzazione dell’opera”. 

Al lessico gregottiano di matrice trattatistica prima segnalato andranno adesso aggiunti anche i termini di fondamento e di regola. E che questa terminologia sia tutt’altro che accidentale lo rivelano le pagine immediatamente successive dello stesso Sulle orme di Palladio, dove Gregotti dedica un paragrafo proprio ai Trattati di teoria e pratica. In esse ricorda che “il trattato, a dire il vero, è concentrato come strumento teorico in pochi secoli”: nell’antichità, nelle forme medioevali di raccolte di consigli costruttivi e poi nella “fiorentissima specie” inaugurata dall’Alberti (autore a lui ovviamente carissimo) e diffusasi nei secoli XVI, XVII e XVIII. Egli specifica poi che, storicamente, “dal trattato si dipartono quattro diversi filoni”: i saggi sull’arte, i testi di filologia e archeologia, il manuale per “il materiale dei vari problemi della costruzione” e infine il manuale “che cerca di dare una regola ai problemi della composizione architettonica”. Queste modalità della scrittura architettonica non sono però per Gregotti solo la memoria storica in cui si è via via riversata la cultura disciplinare: rappresentano piuttosto “le riflessioni che hanno guidato la costruzione dei progetti, lo scarto tra intenzioni ed esiti, i principi e i metodi adottati”. Sono dunque ancora patrimonio del sapere architettonico, perché vedere “come le scelte si compongano in un linguaggio coerente e organico ci è di grande aiuto per capire come noi, in altro modo, compiremo le nostre scelte progettuali”. 

Il trattato, lasciatesi alle spalle le epoche dell’esplicita normatività nonché le diramazioni in diversi filoni manualistici moderni, comincia a mostrare il suo nuovo, possibile profilo: è “un sistema di riferimento su cui si proietta il presente della tradizione della nostra pratica artistica”. Il nuovo modo di intendere il trattato consisterà allora nell’elaborare il lutto della sua antica normatività traducendola in una moderna, per quanto apparentemente provvisoria, ricerca di regole elette a “fondamenti” del progetto.

Discende da qui la predilezione di numerosi editoriali e di vari frammenti o capitoli di libri di Gregotti scritti in forma di “consigli”, “compiti”, “principi”. Per esempio, in Le scarpe di Van Gogh (1994), libro che raccoglie e riordina testi di lezioni e articoli di fondo pubblicati su “Casabella” e “Rassegna”, leggiamo titoli programmatici quali Vedere i principi e Compiti per la critica, insieme ad altri titoli asseverativi quali Semplicità, ordine, organicità, precisione o Scegliere, disporre, scrutare, scavare. In Questioni architettura (1986), altro libro che colleziona editoriali casabelliani, troviamo titoli come Dieci buoni consigli e Posizione, relazione, così come Morfologia, materiale e Progetto, programma. In Racconti di architettura (1998), libro che rielabora relazioni di progetto, il linguaggio trattatistico riemerge nuovamente da titoli quali Principi di insediamento o Accogliere, interpretare, elaborare, mentre il già citato Sulle orme di Palladio conclude anch’esso con Alcuni buoni consigli. 

Se si potesse trarre un indirizzo da questo filo di Arianna in cui si dipana l’idea moderna di trattato, verrebbe da dire che, contrariamente alla esaustività normativa dei tempi passati, per Gregotti il trattato diventi il metro di ciò che connette e separa le intenzioni dagli esiti architettonici. Il suo trattato si muove in tal senso nella perenne “incompiutezza del pensiero moderno” (come recitano taluni libri di filosofia che teneva anche sul tavolo di lavoro), ma allo stesso tempo pretende una propria forma di perennità o quanto meno di durata, identificata nei “fondamenti” operativi dell’architettura (si veda al riguardo L’architettura del realismo critico, 2004).

Questa declinazione concettuale del trattato viene sintetizzata in modo quanto mai esplicito nelle pagine di Architetture del trattato, che compongono la prima delle sue Diciassette lettere sull’architettura (2000), quella destinata a Luigi Snozzi. In essa Gregotti scrive che “il trattato antico è sempre fortemente appoggiato in modo dimostrativo alla illustrazione di progetti”, e che siano da imputare alla sua scomparsa tutti quei “discorsi puramente linguistico-visivi sul farsi dell’immagine dell’architettura, piuttosto che sull’architettura stessa”. Che fare allora per sopperire alla scomparsa “pretesa di completezza e sistematicità” del trattato senza cadere nel “puro linguistico-visivo”? Dissipato il patrimonio tecnico-scientifico dell’architettura che avrebbe mantenuto al potere il genere letterario del trattato, nell’epoca delle pratiche artistiche “creative” bisognerà riallacciarsi a un trattato come “trattazione della materia il cui carattere è, dal XIX secolo in poi, progressivamente perseguibile nei principi, ma certo non nelle tecniche, a causa della loro complessificazione e diversificazione”. Bisognerà fare in modo che “ogni scritto teorico abbia come scopo il dialogo tra prassi e teoria”, che “il discorso sul farsi dell’architettura” consista nel “dialogo che questo intrattiene con i suoi stessi fondamenti, con ciò che nel tempo, pur essendo continuamente riplasmato, è rimasto sempre, nella sua sostanza, architettura”; si dovrà cercare di “costruire gerarchie tra il proliferare delle interpretazioni e prender partito tra esse con le parole e con le opere, in modo coerente, con la coscienza della provvisorietà della nostra ipotesi, ma anche della sua rinascente necessità”. Il trattato, che come impalcatura logica non potrebbe che essere scritto una volta per tutte, nel nostro tempo si trasformerà allora in “traccia di quei fondamenti la cui emersione, nel contesto storico e geografico specifico, rappresenta ancora la sostanza dell’architettura”.

Da qui la coincidenza sotterranea di trattato e rivista in Vittorio Gregotti, il quale appunto non ha mai smesso un giorno di tirare righe di progetto e scrivere righe di un trattato infinito. Del suo inarrestabile esercizio letterario potremmo così dire ciò che Sartre diceva del proprio lavoro di filosofo scrittore: “Mai un giorno senza una riga”. Ogni giorno Gregotti si è cimentato nella stesura di un trattato continuo sebbene sempre incompiuto come lo sono i numeri di una rivista e i titoli di nuovi libri ancora da dare alle stampe. Proprio per questo viene da ricordarlo usando il motto con cui lo stesso Gregotti ritrasse l’indimenticato editore Giulio Einaudi: “Pretendeva di insegnare a sciare a tutti: anche ai maestri di sci”.

Bruno Pedretti

[1] Questo testo riprende, in forma leggermente ridotta e con necessarie correzioni, quello pubblicato con il titolo Sotto le riviste il trattato, in Guido Morpurgo (a cura di), Festschrift per gli ottant’anni di Vittorio Gregotti, Skira, Milano 2007.

                                                                                                          ***
                                                                                      VITTORIO PIZZIGONI
                                                                                      architetto, studio Baukuh

Architetto, urbanista, critico, scrittore, fondatore e direttore di riviste, storico del design, professore, iniziatore della Biennale di Architettura di Venezia, presenza centrale del dibattito architettonico per molti decenni, Vittorio Gregotti è stato così strettamente legato allo sviluppo dell’architettura italiana e mondiale che non è possibile parlare di lui senza menzionare il vasto contesto architettonico e culturale entro cui operò, così come non è possibile parlare di quel contesto senza riconoscere la sua influenza. 

Quando mi sono iscritto ad architettura, allo IUAV di Venezia, Vittorio Gregotti insegnava all’ultimo anno e proprio allora aveva deciso che l’anno successivo sarebbe passato a tenere il corso del primo anno. Per studiare con lui abbandonai il corso che stavo frequentando con la conseguenza di andare fuori corso già dal primo anno dei miei studi universitari. L’ho scelto come professore, ho imparato moltissimo da lui e lo ricordo con stima e affetto. 

Arrivava in aula alle nove in punto del lunedì mattina e iniziava subito a parlare a un ritmo serratissimo che manteneva per le due ore seguenti. Ogni volta trattava di argomenti anche molto diversi tra loro, e quella che più tardi avrei capito essere un’esposizione complessa della disciplina mi sembrava a volte un racconto episodico o perfino frammentario. Le lezioni si concludevano immancabilmente col consueto “Grazie e arrivederci”, e appena alzavo gli occhi dal quaderno d’appunti egli era già scomparso. Un giorno chiesi agli assistenti se era possibile fare delle domande e così, a partire dalla volta successiva, fui costretto a farne. Lo scopo principale del corso era quello d’insegnarci a guardare la città e le architetture che ne fanno parte, per poterlo fare poi autonomamente. In quell’anno imparammo quanto il contesto sia centrale per il lavoro dell’architetto: una lezione che non ho più dimenticato. 

Durante il corso non ci parlò mai dei suoi progetti, credo per non influenzarci. Solo una volta durante una revisione, di fronte a uno studente che aveva imitato goffamente le forme del Centro Culturale di Belém, improvvisò la spiegazione delle complessità e delle difficoltà di un progetto apparentemente così semplice. Non si compiaceva di essere imitato e preferiva chi ne seguiva gli insegnamenti a chi ne riproponeva le soluzioni formali. Ricordo la sua disponibilità ad ascoltare, prestando una sincera attenzione anche a chi esponeva considerazioni molto distanti dal suo pensiero. Mai dogmatico, curiosissimo nell’ascolto, durante il dialogo con gli studenti la frenetica velocità del suo pensiero sembrava trovare una improvvisa quiete. Poi fulmineo formulava risposte acute e a volte spiazzanti che, anche nella critica, venivano consegnate con un sorriso vagamente ironico ma rassicurante. 

Negli scritti così come nei progetti di Vittorio Gregotti traspare questo atteggiamento estremamente colto, al limite dell’elitario, mai rilassato a facili semplificazioni e volto a tenere assieme una complessità spesso maggiore di quella che le opere possano contenere o che il pubblico possa comprendere. In quegli anni dirigeva la rivista “Casabella”, nei cui numeri venivano concentrate una quantità strabordante di tematiche e di considerazioni, scritte in modo così fitto che difficilmente era possibile leggerle tutte in un solo mese. Era una rivista con un taglio redazionale chiaro, evidenziato da assenze eccellenti, ma era una rivista ricca e generosa, che è stata capace di dare spazio e rendere noti al pubblico internazionale alcuni grandissimi architetti. Negli stessi anni dirigeva anche il trimestrale “Rassegna, problemi di architettura dell’ambiente”: una rivista molto più importante della fortuna che ebbe, i cui numeri tematici e monografici ampliavano la disciplina dell’architettura al punto da includere a pari merito dirigibili, storie di città, giardini, e molto altro. 

Durante gli studi lo rividi ancora, un’ultima volta quando fotografai nella sua residenza veneziana un quadro relativo alla Chiesa del Redentore. Poi, dopo l’università, lo incontrai solo durante le sue rare lezioni pubbliche, e in quelle occasioni non mancai mai di avvicinarmi al “professore” e di manifestargli la gratitudine per un insegnamento che me lo fa ancora sentire vicino. 

Vittorio Pizzigoni

                                                                                                           ***
                                                                                           FRANCO RAGGI
                                                                                                    architetto

Con Vittorio

Non vorrei commemorare ma ricordare momenti importanti per me vissuti con e grazie a Vittorio Gregotti.

Lo incontrai nel 1973 nello studio di via Circo per pubblicare su Casabella il dipartimento di Scienze dell’'università di Palermo, progettato con Lugi Pollini. Mi chiamò allora a lavorare con lui al testo per la rivista Ottagono sulla storia del Design Italiano. Lo sentii pragmatico, concreto, capace di ascoltare, curioso, polemico e anche un poco visionario. Quando accettò l’'incarico per la rinnovata Biennale di Venezia nel 1974, volle che all’'arte fosse per la prima volta affiancata l’'architettura. Credo che questo accoppiamento abbia aperto decisive connessioni culturali, tematiche e operative tra due mondi spesso tenuti separati e specialmente nelle facoltà di architettura, quello dell'arte contemporanea, ignorato.
Lavorando io nella Casabella di Alessandro Mendini sperimentavo per la prima volta una simbiosi creativa e problematica tra i due mondi. Forse per questo Vittorio, anche se non benevolo verso quella Casabella, mi chiamò a lavorare con lui per la Biennale. Furono due anni entusiasmanti. Nel 1975 e ‘'76 furono usati per la prima volta luoghi esterni ai tradizionali Giardini; i Magazzini del Sale, le fonderie alla Giudecca, chiese e musei come Cà Pesaro, il Museo Correr e Cà Corner iniziarono a far parte di una idea di Biennale diffusa che oggi ci sembra naturale. Ma l’'apporto più interessante in questa visione di integrazione e confronto fu il coinvolgimento progettuale di architetti e artisti su temi comuni come il riuso del Mulino Stucky alla Giudecca, emblematico monumentale luogo di abbandono e di storia industriale.
La profonda cultura di Vittorio lo portava naturalmente a considerare l’'arte e gli artisti come intellettuali visionari e concreti al tempo stesso capaci di indurre analogie e riflessioni attuali e brucianti sulle crisi della modernità e sulle revisioni dei ruoli, dei fini e dei linguaggi. Che l’'architettura non fosse estranea a tutto questo non era in discussione, ma che dalla commistione e confronto programmatico di ipotesi di lavoro convenzionalmente lontane potesse nascere un modo diverso di concepire e fare mostre non era scontato.
Il secondo aspetto innovativo di quella Biennale fu l'’approccio tematico. Il tema dell’'Ambiente come contesto ma anche come risorsa, fu l’'asse portante di alcune mostre come Arte/Ambiente curata da Germano Celant e Europa/America da me curata insieme a Vittorio, che chiamava architetti americani ed europei a confrontarsi con la questione del contesto e dell’'assenza di contesto. Il contrasto Urbe/Suburbio, Centro/Periferie, Città storica/Città senza città, sollecitarono progetti originali e presenze memorabili. Il convegno “"Quale Movimento moderno”" radunò per la prima e forse ultima volta i più importanti architetti del tempo a discutere sul senso del nostro mestiere. Fu una idea e un merito di Vittorio portarli tutti lì, non a mostrare le loro opere, ma a produrre progetti e pensieri ad hoc sul tema.

Non voglio spingermi a parlare di Vittorio architetto, solamente dico che tra il rigore geometrico e forse monotono di Bicocca e la schizofrenia linguistica di "“City life”", preferisco di gran lunga il primo come modello urbano e civile.

Voglio infine ricordare la lucida visione di Gregotti saggista, nel considerare l’'architettura contemporanea come luogo simbolico dove ha prevalso il marketing urbano e la deriva immobiliar/finaziaria, abbandonando la visione dell’'architettura come strumento fisico precipuo di abitare sociale e autoconfinadosi in un superficiale ruolo decorativo e glamour per città tutte eguali fatte di accumuli edilizi insignificanti.

Grazie Vittorio

Franco Raggi

                                                                                                            ***
                                                                                          MONICA TRICARIO
                                                                                         architetto, studio Piuarch

La prima parola che mi viene in mente pensando a Vittorio Gregotti è intelligenza. Era una persona estremamente intelligente e di una cultura vastissima. Estremamente acuto, estremamente arguto, estremamente spigoloso per certi versi ma altrettanto coerente.

Ho lavorato con lui per otto anni, dalla laurea in poi. Sono entrata nello studio Gregotti quando era uno degli studi più grandi d'Italia, eravamo ottanta persone. C' erano gruppi che facevano architettura, urbanistica, grafica, con Pierluigi Cerri. Era un mondo multidisciplinare, popolato da tantissime persone che sono diventate poi amiche al punto che ancora oggi ci confrontiamo e sappiamo tutto gli uni degli altri. Quello che è stato fondamentale nell'esperienza passata nello studio Gregotti è l'insegnamento di un modo di fare architettura, di un approccio al progetto di una analisi del contesto nel quale il progetto nasce e si realizza.

Abbiamo imparato tutti un metodo che ancora oggi noi quattro di Piuarch portiamo avanti perché è un metodo che riteniamo importante e valido, relazionarsi con il contesto, avere ben presente la struttura dei luoghi nei quali si va a lavorare, struttura fisica morfologica culturale, artistica. Sono tanti aspetti che rientrano tutti all'interno del progetto. Questa è certamente la lezione che abbiamo imparato da Vittorio Gregotti.

Cosi come la capacità di fare delle differenze e dei diversi punti di vista dei plus all'interno del progetto , quindi degli stimoli creativi anziché dei vincoli che ostacolino la creatività.

Stiamo vivendo tutti un momento estremamente difficile, il mondo dell'architettura sta soffrendo tantissimo, noi in prima persona stiamo soffrendo tantissimo, come certamente tutte le attività in tutti i campi professionali. Piuarch ha introdotto lo smart working, le persone lavorano da casa e lo studio è vuoto. Questo ha significato ripensare in modo spiazzante il nostro modo abituale di lavorare. Il nostro è un lavoro che si basa sul confronto personale continuo, sulla vicinanza, sullo scambio diretto di pensieri e idee. E non è facile. Ho letto l'altro giorno un bellissimo articolo di Luca Molinari sul vuoto. Il vuoto che in questo momento percepiamo all'interno delle città, che è un vuoto fisico oltre che psicologico. L'articolo di Luca invita a fare una riflessione sul vuoto e su quello che in questo momento drammaticamente appare ai nostri occhi perché non ci sono più le persone. Le persone creano la città e sono la città. E invita a fare una riflessione sull’osservazione, la progettazione e la riqualificazione dei vuoti e questo credo che sia un modo per continuare a progettare le nostre città e a far si che gli spazi tra un edificio e l'altro, che sono gli spazi importanti di una città vengano considerati guardati e ripensati, perché vengano restituiti alla collettività. Mai fondamentale della nostra vita e quindi ora più che mai una città più che di begli edifici deve essere fatta di spazi pubblici ben progettati che siano bene comune della collettività.             

Monica Tricario                                                                                      

                                                                                                           ***
                                                                                      PIER PAOLO TAMBURELLI
                                                                                             architetto, studio Baukuh

Ho parlato con Vittorio Gregotti solo una volta, cinque o sei anni fa. Avevamo pubblicato un piccolo libro e gli avevamo chiesto se lo voleva presentare. Poi la cosa non s’era fatta (il giorno della presentazione doveva andare dal dentista, se ricordo bene), ma comunque mi invitò nel suo studio di via Bandello, davanti al carcere di San Vittore. Quando lo visitai, lo studio era ormai chiuso, qualcuno stava mettendo in ordine l’archivio; Gregotti mi accolse impeccabile in giacca e cravatta. Aveva già ben più di ottant’anni. Non credo si fosse particolarmente preparato per ricevermi, non c’era motivo, eppure era inappuntabile. Aveva persino scorso il nostro libretto e aveva subito iniziato a elencare tutta una serie di perplessità. A un certo punto citò Horkheimer (neanche Adorno, Horkheimer) e mi parve di essere tornato indietro nel tempo, a un mondo in cui esistevano davvero degli intellettuali italiani e questi leggevano per tempo quello che scrivevano gli altri intellettuali europei, da cui talvolta dissentivano, e comunque spiegavano e soprattutto rimproveravano i malcapitati di cui si ritenevano responsabili. Per un attimo, anche noi eravamo l’oggetto di quell’infaticabile lavoro di censura, che da studente avevo fatto in tempo a conoscere appena prima che svanisse – e per il quale avevo subito nutrito un’istintiva simpatia, forse solo perché allora era unanimemente detestato. Gregotti mi rimproverava di non so cosa, forse di non essere abbastanza leale al modernismo (come se, anche volendo, nel 2015 si fosse potuto), ma io pensavo con nostalgia a un’Italia in cui esisteva un establishment, in cui si andava in studio vestiti come Dio comanda e si potevano spendere i soldi dello stato per provare a fare (da zero, e senza la minima ironia) la Silicon Valley in una valle della Calabria. Pensavo ad altri grandi vecchi che avevo conosciuto, tutti diversamente lamentosi, tutti così meravigliosamente coerenti nei loro vari progetti di annichilimento dell’universo, tutti così meravigliosamente dalla parte della ragione, anzi possessori della ragione, come se la ragione fosse una cadrega che a un certo punto avevano comprato o rubato e su cui poi si erano seduti per non scenderne mai più. E dai loro rispettivi troni questi vecchi mi avvertivano, tutti secondo il loro stile: Gregotti rimproverandomi, Grassi prendendomi per il culo, Mari semplicemente insultandomi. E anche in questo mi era evidente che, dei tre, Gregotti era non solo il più educato, ma anche il più generoso. Questa generosità, che gli è stata così poco riconosciuta, voleva dire per Gregotti assumersi tutte le responsabilità che in un paese civile toccano ai borghesi ricchi. E queste responsabilità, Gregotti se le è proprio prese proprio tutte, sia da un punto di vista teorico che professionale. Gregotti infatti ha scritto di tutto, estesissimamente e meticolosissimamente: di design, di architettura, di urbanistica, di paesaggio (quando nessuno sapeva nemmeno cosa fosse), di territorio, di estetica. E non solo ha scritto, ha anche fatto tre riviste bellissime (bellissime Edilizia moderna e poi Rassegna, ma bellissima anche la tanto odiata Casabella). E poi, soprattutto con la Gregotti Associati, la ditta che aveva messo in piedi nel 1973 con Augusto Cagnardi, Pier Luigi Cerri e Pierluigi Nicolin, ha anche progettato di tutto: sedie, lampade, case popolari, palazzine, fabbriche, scuole, università, musei, stadi, teatri, quartieri, città. Tutto con una voracità così estrema da poter riuscire solo alle persone radicalmente convinte della propria missione – e quindi radicalmente innocenti, che infatti Gregotti la Bicocca l’ha disegnata tutta, dall’inizio alla fine, finestra quadrata dopo finestra quadrata, senza lasciare niente a nessuno, perché quella responsabilità era la sua, solo la sua.

Questa ansia di assumersi tutte le responsabilità di un borghese colto in un paese civile corrispondeva forse alla paura (alla consapevolezza?) che questo paese tanto civile non è. E Gregotti lavorava appunto, ostinatamente, come se l’Italia fosse, appunto, un paese civile. Anzi forse lavorava così duramente solo per provare a convincersene. Così, Gregotti, l’intellettuale non-ingenuo per eccellenza, l’uomo di cultura che sapeva di dover essere uomo di potere, mi sembra oggi anche e soprattutto questo uomo paradossalmente generoso, che mi sento di ringraziare non solo per le riviste bellissime e lo stadio meraviglioso di Genova, non solo per essersi instancabilmente attribuito l’ingrato e difficile mestiere del censore, ma per essersi attribuito soprattutto l’infame mestiere dell’italiano civile.

Pier Paolo Tamburelli

                                                                                                           ***
                                                                                               DANIELA VOLPI
                                                                                                       architetto

Nel 1964 iniziai a frequentare la facoltà di architettura al Politecnico di Milano. Allora gli studenti erano divisi, a seconda dell’iniziale del loro cognome, in due sezioni: la sezione A e la sezione B. Per via della V del mio cognome fui collocata nella sezione B e nella sezione A faceva lezione, tra gli altri, Vittorio Gregotti. Andai a una sua lezione, incuriosita dalla sua fama, e non capii nulla di quello che diceva. Così nulla che decisi di seguirle tutte, e di leggere i suoi libri, e di ascoltare le sue conferenze. Un “bagno” di teoria dell’architettura, di citazioni colte, di lezioni eccellenti e inedite che mi hanno accompagnato nella vita universitaria e poi anche in quella professionale.
Non ebbi più occasioni di vederlo, se non da lontano, fino a quando ci fu la “Questione Scala Arcimboldi”. Allora ero Presidente dell’Ordine e dovetti occuparmi della vicenda a nome di tutta la categoria. Vittorio la prese molto male e ci volle molto tempo per convincerlo che le azioni intraprese non erano contro di lui, ma in difesa della norma che gli incarichi pubblici dovevano essere assegnati attraverso un bando di concorso.
Lo convinsi, fu costruito comunque il suo teatro, disseppellimmo l’ascia di guerra e facemmo una serata all’Ordine in suo onore. Da allora lo rividi poco e sempre da lontano, fino a quando nel marzo del 2013 fummo nominati nella Giuria del concorso a inviti per la scelta del progetto di “Un padiglione temporaneo Infopoint” per Expo 2015. Concordammo sulla valutazione di molti progetti, tra cui quello del vincitore. Ma ci ribellammo entrambi quando sembrava che l’installazione da temporanea diventasse permanente.
Nel successivo mese di aprile trasferii il mio studio in via Matteo Bandello. Lo incontravo spesso per strada e un giorno mi disse “vieni a trovarmi in studio, così chiacchieriamo un po’”. Lo feci diverse volte, e in quelle occasioni riscoprii il vero e più affascinante Gregotti.

Daniela Volpi

                                                                                                          ***
                                                                                                 CINO ZUCCHI
                                                                                                       architetto

Articolo pubblicato su TheBrief di PPAN il 15 marzo 2020. 
Si Cino Zucchi (testo raccolto da Paola Pierotti)

Nel 1975, da stagista ancora diciannovenne, essere preso alla Gregotti Associati anche solo per tirare righe con il Rapidograph fu per me davvero emozionante. I grandi archi in mattoni, le vetrate sul giardino e il soppalco in putrelle a vista dello studio di via Bandello facevano da sfondo amato al lavoro di persone diverse e interessanti, tenute insieme da una curiosità e un impegno che Gregotti riusciva a indirizzare su obiettivi sempre diversi con la sua capacità di creare un “"campo gravitazionale”". Ogni tanto meteoriti e comete dalle orbite eccentriche come Pierluigi Nicolin, Italo Rota, Franco Purini, Emilio Battisti passavano a salutarci e conversare, e accoglievamo ogni settimana studenti e architetti stranieri di passaggio da Milano.

In confronto ad altri “"maître à penser”" della cultura architettonica come Aldo Rossi e Guido Canella, Gregotti appariva ai miei occhi animato da un pensiero più inquieto, curioso, dialogante, capace di miscelare la tradizione del pensiero razionalista con un empirismo di matrice anglosassone o scandinava. Questo atteggiamento si poteva cogliere in maniera indiretta sull’architettura prodotta dallo studio, meno indirizzata e “"monolitica”"– - sia dal punto di vista strutturale che da quello figurativo –- di quella che anni più tardi il grande pubblico assocerà alla figura di Gregotti. Una domenica mi toccò tradurre dall’italiano all’inglese un saggio su di lui nella prosa forbita di Sergio Crotti: ne ricordo ancora il titolo parafrasato da Le Corbusier: “"Il mestiere impaziente”", definizione perfetta del lavoro di Vittorio.

Parlare con Vittorio era un vero piacere: la sua curiosità intellettuale, la vivacità del suo eloquio e la sua misurata ironia erano capaci di generare allo stesso tempo carisma e confidenza, rispetto e condivisione. Egli ha sempre appartenuto alla schiera delle persone convinte che dovesse esistere qualche forma di relazione strutturale tra pensiero astratto, azione politica, e produzione artistica o progettuale; il suo modo di vedere le cose era "“tardo-moderno”" - seppur in una forma critica e inquieta - piuttosto che “"post-moderno”".

La mia esperienza lavorativa con lui fu tutto sommato breve, ma il rapporto di stima duraturo e in continua evoluzione. Ogni anno aspettavo i numeri monografici di Casabella con ansia: essi affrontavano temi sempre nuovi e nuovi modi di guardare alle cose, diventando il crocevia di un dibattito europeo e internazionale di grande intensità.

Gli articoli di giornale e i saggi da lui scritti negli ultimi quindici anni hanno cercato di metterci in guardia dall’uso tutto strumentale e sovrastrutturale che il sistema immobiliare fa di architetture ad alto tasso iconico e spettacolare, e questo è forse una delle cause principali di una sua progressiva distanza dalla cronaca contemporanea.

Sono andato a trovarlo solo qualche mese fa per trovare insieme gli argomenti di una conversazione tra me e lui organizzata dalla Triennale. La sua condizione fisica già provata non riusciva a sedare la velocità e la lucidità della sua testa pensante, capace di entusiasmarsi a partire da uno spunto fecondo del discorso, da una traccia da inseguire e collocare in una struttura in continuo movimento.

Javier Marías sostiene che quando una persona muore, scompare con lei la “"memoria tutta intera, un tessuto discontinuo e variabile costellato di strappi e allo stesso tempo fabbricato con pazienza e cura”". L’insieme delle percezioni e delle esperienze che danno identità e consistenza a una persona non è riproducibile. Tuttavia, molte persone come me e mia moglie Francesca che hanno avuto la fortuna di lavorare insieme a Vittorio porteranno con loro un frammento della sua voglia di capire e dare forma ai luoghi che ospitano la nostra esistenza, e che ci sopravvivono come “"parole di pietra”".

Cino Zucchi

                                                                                                      ***
                                                                                            TIZIANA LOMBARDI
                                                                                                       architetto

Avevo incontrato Vittorio Gregotti nel Luglio 2014, in una giornata estiva strana. Diluviava. Avevo scoperto, per caso, che alle 21 ci sarebbe stato un suo intervento al Politecnico.

<<Piove, ma io a questo convegno ci devo andare! Il tema è "fortuna e destino"... e poi c'è lui che parla; non mi ricapiterà più di vederlo dal vivo>>.

Felpa, kway, casco e motorino per arrivare in tempo, nonostante il diluvio. <<Ci sono, eccolo!>>. Piuttosto schivo nell'apparire in pubblico, con toni pacati, ci aveva parlato della sua vita e dell'Architettura, così come la definivano i greci "costruire poeticamente”. Concluso il suo eloquio raffinato si era diretto fuori dall'edificio, verso il piazzale. Lo avevo seguito e raggiunto, volevo stringergli la mano. <<Anche io sono Architetto, sono molisana>>. <<Ho iniziato a lavorare in Sicilia e mi sono reso conto che non si capisce l'Italia se non la si guarda dal sud, dalle sue contraddizioni, che ne costituiscono la sua ricchezza. I miei avevano una fabbrica, ho lavorato lì per alcuni anni, imparando il lavoro di squadra. Sono stati per me più importanti i rapporti con uomini di lettere, musicisti, storici dell'arte che con i miei colleghi, perché mi hanno trasmesso specificità, tendenze ed idee diverse>>. Mi aveva stretto la mano e si era riavviato. <<Architetto, mi conceda un altro minuto. Come sarà il nostro futuro?>>. <<Tutte le volte che mi fanno una domanda sul futuro dico che è molto più importante parlare del presente, perché quello che noi facciamo nel presente avrà influenza nel futuro>>. Aveva ripreso a piovere. Chiamato un taxi, andò via. Restai qualche minuto a guardarlo ed a ripensare a ciò che mi aveva detto. Oggi, alla notizia della sua morte con Coronavirus, la sua frase di quella strana sera d’estate del 2014 “la fortuna aiuta a disegnare il tuo destino" fa rumore... 

Ciao, Vittorio, insegna agli angeli a “costruire poeticamente”, perché l’Architettura, “arte tra le arti” non è roba da uomini.  

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